Il razzismo della porta accanto. Lettera aperta a Luciana Malighetti.
Cara Luciana, confesso di avere di proposito aspettato alcuni giorni prima di commentare il tuo intervento “Io non ci sto”. Mi ero illuso che puntare il fascio di luce sul lato oscuro delle nostre paure e dei pregiudizi con i quali camminiamo scatenasse aspri confronti. Invece niente, eccetto la riflessione di buon senso del sindaco Gianni.
Eppure quanto accaduto ad Adro è una formidabile occasione per capire la natura, la consistenza, i meccanismi culturali e politici del razzismo della porta accanto, quello che si svela nelle nostre comunità e non trova una adeguata ed efficace risposta, nonostante la maggioranza delle persone, ne sono convinto, non condivida il clima di intolleranza predicato.
Della complessità del fenomeno vorrei soffermarmi su una piccola parte, suggerita dalla lettura fatta nella piazza di Monte Marenzo in occasione del 25 aprile, e relativa ai divieti introdotti dal fascismo con le leggi razziali del 1938.
Pensavo: di fronte alle trasformazioni epocali che stiamo vivendo nel primo decennio del 2000, capaci di mettere in moto la migrazione di interi popoli, l’unica risposta data da alcuni sindaci delle nostre contrade sono delle piccole e stupide infamie sottoforma di delibere e di ordinanze.
Ordinanze che vietano di sdraiarsi sulle panchine, ordinanze che obbligano a parlare italiano in riunioni pubbliche, disposizioni per dare la cacciare casa per casa allo straniero senza permesso, ordinanze per ostacolare l’iscrizione anagrafica degli stranieri, ordinanze per sgomberare campi Rom e Sinti, bandi e regolamenti che escludono i bambini stranieri da provvedimenti sociali e di sostegno scolastico, e così via. Provvedimenti inefficaci e illegittimi, il più delle volte annullati dalle autorità competenti.
Ma allora, perché alcuni primi cittadini li adottano? Solo per dare il buon esempio ai propri figli? Non direi: azzardo due scenari.
Perché discriminare il nero è conveniente in termini elettorali, fa prendere voti (è il caso più riprovevole, circoscritto ad un ceto politico che senza straniero non saprebbe di che vivere).
Perché ho paura, paura di dover cedere parte di quei benefici sociali e quella tranquillità economica che ho conquistato in anni di sacrifici e di lotte (è il caso più diffuso, al quale vanno date delle risposte positive e non lasciarlo in balia di quanti seminano odio e intolleranza, cioè i rappresentanti del caso precedente).
Che fare? Innanzitutto, noi, che la pensiamo in modo opposto, dobbiamo cambiare registro.
Esternare la nostra indignazione nei confronti di leggi, delibere, ordinanze e comportamenti discriminatori e intolleranti non basta.
Quando affermiamo che tutti gli uomini, in quanto persone, hanno gli stessi diritti inalienabili significa che dobbiamo:
- ingaggiare in ogni luogo, dal vicino di casa sino ai dibattiti istituzionali, un confronto di idee alto e determinato sulla esigenza di elaborare progetti per la coesistenza pacifica tra diversi;
- essere fisicamente attivi nei luoghi dove si consumano episodi di intolleranza e razzismo e, con il metodo della non violenza, proteggere la parte più debole;
- pensare le istituzioni e approvare atti in funzione del benessere della comunità, intesa come ambito di inclusione e di solidarietà per ognuno dei suoi abitanti, senza alcuna distinzione;
- garantire la sicurezza della comunità attraverso il rispetto delle regole che ne garantiscono la coesione, la centralità della responsabilità individuale nei processi collettivi, la tutela della diversità avendo come limite il riconoscimento della diversità dell’altro (certo che è difficile pretendere che gli stranieri si comportino ammodo, quando di frequente li costringiamo a vivere come bestie).
E’ in questa direzione e con questo spirito, per esempio, che nel Bilancio del comune di Monte Marenzo proponiamo un progetto di mediazione di comunità, uno strumento che ci aiuti a far sì che ogni nostro cittadino possa riconoscersi nella famosa frase di Italo Calvino: “…la città ideale probabilmente non esiste, ma se ci fosse, sarebbe quella che è in grado di dare la risposta giusta ai bisogni di ognuno dei suoi abitanti”.
Termino proponendo un quesito facile facile. Quello che segue è un documento ufficiale molto famoso; provate a indovinare di chi si sta parlando mettendo i nomi corretti al posto degli asterischi.
Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali.”
“Propongo che si privilegino i ****** e i********, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli ********* rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal *** **********. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione”.
Gentile Adriano, complimenti per aver indovinato e svelato ai nostri naviganti l’origine del documento che avevo proposto in appendice all’intervento. Sì, l’analisi parla di noi italiani, esattamente come ora alcuni di noi giudicano quanti vengono dal mare.
Ti chiedi se la storia non insegni mai niente. Ritengo proprio che la Storia ci consegni testimonianze, riflessioni, analisi precise di come eravamo; il guaio è che non vogliamo imparare,ci fa comodo guardare da un’altra parte. Ma la realtà è più forte della propaganda e dell’ideologia e alla fine ci consegna il conto.
Comunque, è stato il primo ad aver trovato la soluzione del quesito, pertanto ha vinto un libro e il diritto ad una bevuta in compagnia della redazione di UPPER a Monte Marenzo.
La invitiamo a lasciarci un suo recapito scrivendo alla posta del sito.
L’amministratore, Angelo Gandolfi.
Gli Italiani visti dall’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano.
Da una relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano (ottobre 1912)
“Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario.
Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione”.
Ma è possibile che la storia non insegni mai niente?
Nel commento a “Io non ci sto” di oggi ho scritto di esser fuori concorso. Comunque Oliviero ci sei andato molto vicino. Direi fuochino, fuoco…
Essendo io tardo di comprendonio ed ignorante ovviamente non ho le capacità adeguate per rispondere al quesito, eppure a quanto pare sono un privilegiato!!
C’è una cosa che quando si considerano le problematiche migratorie rimane in sospeso, quasi fosse un argomento estraneo, quando invece è per molti il motore che spinge ad abbandonare il proprio paese, lo stesso motore che dalla metà del XIX secolo fino agli anni 70 del secolo scorso ha spinto molti nostri compatrioti a partire verso altri paesi.
Il bisogno di lavorare!!
Quello che mi lascia più sconcertato è che noi popolo di migranti fino a non tantissimi anni fà, siamo oggi incapaci di riconoscerci in questi nostri fratelli, che hanno esattamente le stesse vicissitudini vissute dai nostri padri, gli stessi bisogni, le stesse speranze, certo sono consapevole che non è facile la convivenza tra culture molto diverse, ma noi Lombardi, noi Veneti, noi Italiani, abbiamo l’obbligo morale di ricordare perchè anche le nostre radici non devono essere discriminate.
Perchè anche le nostre radici hanno attinto da quel bisogno!