Il lavoro (precario) nel nostro territorio. Ne parliamo con i lavoratori
Alcune settimane fa il nostro sito, in un articolo dal titolo “Tutti rumeni? Il lavoro dei “tempi moderni”.”, si è occupato dei dati sulla situazione provinciale dell’occupazione lavorativa. Elevato il numero di lavoratori che hanno perso il posto di lavoro in questi due anni di crisi.
Il dibattito si è poi spostato sulle condizioni di pecarietà del lavoro e sulle possibili conseguenze dell’estensione ad altre fabbriche di un contratto tipo quello siglato alla Fiat di Mirafiori.
Ma come stanno vivendo questa situazione di crisi i lavoratori della nostra zona? Quali i problemi contrattuali ? E, più in generale, quali sono le conseguenze della globalizzazione, del mercato interno che segna il passo, i problemi della precarietà del lavoro?
Ne parliamo con alcuni dei nostri amici UPper che, lavorando in fabbrica, hanno una visione dall’interno che può farci capire meglio quali sono i problemi che stanno vivendo, le loro preoccupazioni, il loro vivere quotidiano.
Leggete i loro interventi e diteci la vostra opinione.
Adriano
Lavoro da quindici anni come attrezzista in un’azienda metalmeccanica di circa 300 dipendenti.
Una decina di anni fa è stato avviato un percorso di trasformazione aziendale favorendo la delocalizzazione di una parte della produzione in paesi asiatici ed est europei.
Tutto questo comporta l’esubero di cinquanta risorse. Venticinque sono state reinserite in altre aree produttive. Per le altre venticinque l’azienda sta trattando con il sindacato per utilizzare ammortizzatori sociali (cassa integrazione e mobilità). Non si capisce perché queste venticinque persone non possono essere reinserite, visto che nell’ultimo anno è stato assunto del personale, extracomunitario, e viene utilizzato personale precario al quale si può dare il minimo sindacale e si può chiedere di lavorare di più senza che si lamenti.
Gli effetti del contratto Fiat cominciano a farsi sentire. Negli ultimi giorni ci è stato chiesto di rinunciare al premio produttività (un premio che fa parte del nostro contratto interno) maturato nel 2010, motivando la richiesta che una parte della produzione ha subito una contrazione di mercato e c’è bisogno di un sacrificio da parte di tutti.
Non capisco perché io mi debba sacrificare per permettere all’azienda di delocalizzare. Si parla di circa l’8% della busta paga e per chi prende 1300 euro al mese non sono pochi.
La crisi in questo caso non centra niente, anche se è utilizzata per giustificare le scelte aziendali.
Questa è la situazione dell’azienda in cui lavoro, ma è una situazione presente in numerose aziende italiane che approfittano della crisi per fare i propri comodi.
Ilaria
Lavoro in un’Azienda metalmeccanica.
I lavoratori non riescono a capire chi dice che “la crisi è passata” o “siamo usciti dalla crisi”, perché vivono questo momento ancora con fatica, facendo grossi sacrifici e rinunce per potersi permettere l’essenziale.
Senza fare i disfattisti o i tragici, per alcuni lavoratori che prima riuscivano a vivere degnamente, è diventato difficile andare avanti e sono costretti a chiedere aiuto e sostegno ai genitori (pensionati) che con la loro pensione, a volte minima, si ritrovano costretti ad aiutare i figli e i nipoti, quindi, dopo aver lavorato una vita, sono obbligati ad affrontare responsabilità che non sono di certo loro.
Chi paga un mutuo o un affitto e ha un lavoro precario, non riesce veramente ad andare avanti e, coloro che con questa crisi il lavoro lo hanno perso, pagano il prezzo più alto.
La crisi è “strutturale”, così rispondono ai vertici quando si va a chiedere qualsiasi cosa.
La contrattazione a livello nazionale è ferma, anzi il Collegato al lavoro e l’introduzione delle Deroghe, hanno dato inizio allo smantellamento dell’unica forma di tutela dei diritti dei lavoratori.
Non parliamo poi del Contratto Aziendale; le risposte sono sempre le stesse: “Non ci sono soldi per nessuno”. Anzi, essendoci in atto i vari ammortizzatori sociali come Cassa Integrazione, Cassa in Deroga, Contratti di Solidarietà, non si entra nemmeno in merito alla discussione, perché dicono che è già tanto conservare il posto di lavoro.
Tutto questo porterà ad incentivare il Contratto Individuale e solo pochi riusciranno ad ottenere qualcosa a scapito della collettività.
Il “mercato aperto” ha favorito la delocalizzazione; i “padroni” hanno più vantaggi a delocalizzare le loro aziende nei posti del mondo dove i diritti dei lavoratori non sono garantiti, piuttosto che investire nel nostro Paese.
Il lavoratore italiano si trova posto sotto ricatto e deve scegliere tra un lavoro meno garantito, per competere a livello nazionale co le nuove economie emergenti e la perdita del lavoro stesso.
Scegliere di barattare il proprio posto di lavoro con i propri diritti è, per un lavoratore, una scelta obbligata, una scelta umiliante e certamente non libera.
Bisognerebbe puntare all’innalzamento globale del livello di tutela del lavoratore, ovunque esso viva, piuttosto che abbassare lo standard faicosamente raggiunto dai lavoratori occidentali.
Oliviero
Io gestisco la produzione in un’azienda del settore farmaceutico.
Per quanto mi riguarda si vive una situazione di grande precarietà: pur non avendo dovuto ricorrere a strumenti quali la cassa integrazione, rimane comunque forte l’incertezza, supportata dal fatto che si lavora con programmi a breve termine, per la tendenza a mantenere un basso livello di scorte a magazzino tanto per le materie prime e i materiali (anche perché gli acquisti vengono fatti quando c’è disponibilità di liquidi e ultimamente questa disponibilità è solamente in funzione del fatturato precedente), quanto per i prodotti finiti, perché si emettono gli ordini solo quando si è in rottura di stock.
Questo comporta una considerevole fluttuazione della forza lavoro necessaria per sopperire alle esigenze aziendali, con conseguente utilizzo di lavoratori precari, che, ovviamente, hanno minime posizioni salariali e contrattuali e scarse tutele. Vengono chiamati alla bisogna e terminata l’urgenza lasciati a casa.
Anche ai dipendenti con contratto a tempo indeterminato viene richiesta flessibilità nel lavoro: straordinario e cambi di turno quando serve e ferie infrasettimanali quando c’è scarsità di lavoro.
E’ chiaro che la stessa situazione di precarietà limita eventuali contropartite, si è disposti a molto pur di mantenere il proprio posto di lavoro.
E sto parlando di un’azienda, la mia, che per ora anche per motivi legislativi non sente troppo la globalizzazione.
Va pure detto che non sembra che la produzione rappresenti oggi la preoccupazione principale di un imprenditore, essa è semmai una delle tante componenti del business, anzi produrre è complicato: moltissimi gli adempimenti normativi a garanzia di sicurezza e qualità, più semplice la finanza ed il commercio, vedi quanti marchi storici non sono più imprese produttive ma solo gruppi commerciali, anche sul nostro territorio.
Logico che una situazione del genere sia fonte di preoccupazione e purtroppo di disoccupazione.
Sergio
Dove lavoro io, un’azienda metalmeccanica, si sta portando avanti una politica di “scoraggiamento” verso le figure che sono da più anni in azienda e quindi guadagnano qualcosa di più di un apprendista. Si sta facendo in modo che, chi può, si cerchi un altro posto di lavoro.
Le ragioni di questo atteggiamento sono puramente economiche, chi lavora da almeno 10 anni ha maturato scatti di anzianità e aumenti contrattuali che chi entra oggi nel mondo del lavoro si può solo sognare. Inotre, sempre per risparmiare, la ditta dove io lavoro ha aperto una fabbrica all’estero e ne sta aprendo un’altra in un Paese dell’Est Europeo, luoghi dove gli stipendi medi sono un quarto dei nostri.
Sono stato anch’io all’estero ad insegnare il mestiere ai lavoratori di quella fabbrica e il messaggio che mi veniva passato dall’azienda era: non preoccuparti il sito di produzione di lì non è in concorrenza con quello italiano, anzi, sarà un punto d’appoggio in caso di bisogno.
Non sono passati molti anni che in Italia abbiamo smesso di fare quel lavoro e siamo stati (i più fortunati) “riconvertiti” a lavori molto meno gratificanti dal punto di vista professionale e, a lungo andare, sicuramente anche dal punto di vista economico.
Non si guarda più in faccia a nessuno: persone che avevano dato l’anima per l’azienda vengono messe in condizione di andarsene, ma cambiare dopo 20 anni passati nella stessa azienda non è facile, e a 40 anni suonati è difficile trovare lavoro. Se trovi qualcosa è quasi sempre un contratto a tempo determinato che si rinnova (se va bene) ogni 3 mesi. Anche da noi adesso assumono a queste condizioni.
La scusa è che sono costretti a farlo per rimanere sul mercato ma gli stipendi dei vari manager (che aumentano sempre di più) non sono mai messi in discussione. Si dice che il pesce puzza dalla testa e allora perchè si taglia sempre la coda?
La tendenza oggi in Italia (e anche altrove) è di aumentare il divario tra ricchi e poveri, cancellando, di fatto, la classe media, con tutto ciò che questo comporta.
Una volta c’erano imprenditori che si preoccupavano di chi lavorava per loro e avevano l’obbiettivo di migliorare le proprie entrate ma anche la vita e le condizioni dei propri dipendenti e del proprio Paese.
Oggi abbiamo imprenditori (spesso figli dei vecchi imprenditori) senza etica e senza morale, che hanno come unico obiettivo il proprio profitto e se ne fregano dei propri dipendenti e del proprio Paese.