Lutto nazionale
Domani, 4 ottobre, giornata di lutto nazionale per la tragedia avvenuta al largo di Lampedusa. In tutte le scuole sarà osservato un minuto di silenzio. Sono le decisioni adottate dal Consiglio dei ministri.
Una tragedia dell’immigrazione senza precedenti ha sconvolto questa mattina l’isola di Lampedusa. Si contano a centinaia, tra morti e dispersi, le vittime di un naufragio causato da un incendio innescato a bordo del barcone dagli stessi migranti che cercavano di farsi avvistare e soccorrere a poche miglia dalla costa.
Il presidente Napolitano interviene per dire che “non si può girare attorno alla necessità assoluta di decisioni da parte della Comunità internazionale e in primo luogo dell’Ue“. Il Primo Ministro Letta ha affermato che bisogna portare al centro dell’attenzione continentale una gestione attenta e solidale del fenomeno delle migrazioni.
Papa Francesco, che, a sorpresa, aveva visitato l’isola come suo primo viaggio dopo la sua elezione, ha avuto una sola parola quando ha appreso la notizia “Vergogna”. Poi ha aggiunto: “non ci può essere vera pace e armonia se non lavoriamo per una società più giusta e solidale, se non superiamo egoismi, individualismi, interessi di gruppo e questo a tutti i livelli”, e parla di “inumana crisi economica mondiale”.
Morti innocenti. Che inseguivano il sogno di un futuro migliore (fuggono da guerre, fame, malattie). Come i nostri padri e nonni, a milioni, hanno attraversato oceani e continenti nel secolo scorso.
Difficile trovare le parole. E le parole non bastano e sono stanche.
Prendo a prestito quelle di Don Luigi Ciotti, che condivido e faccio mie, a nome di UPper (se siete d’accordo):
“È una triste storia che continua e anche le parole sono stanche. Sono morti che devono pesare sulle coscienze di tutti. E dovono farci dire basta, basta ai trafficanti di morte, basta ai venditori di illusioni, basta a chi anche su queste morti fa propaganda, basta a chi cerca scorciatoie con leggi che negano diritti, alimentano illegalità e disperazione” .
Domani invitiamo tutti a rispettare il lutto nazionale.
ERRI DE LUCA (il racconto dell’immigrazione dal cimitero di Lampedusa, dal programma “Che tempo che fa” del 20 maggio 2009, RaiTre).
Il 1900 è stato il secolo in cui milioni di essere umani si sono spostati da un continente all’altro. E così hanno spostato il peso del mondo. Milioni di esseri umani, miriadi di esseri umani. Nel 1900 siamo stati noi, italiani, gli azionisti di maggioranza. Trenta milioni di noi si sono spostati. Al porto del molo Beverello si staccavano le navi che portavano dall’altra parte dell’Oceano. Era nero, il molo, di madri. Con quei loro fazzolettini bianchi, che sembravano tante farfalline immobili, inchiodate. Verso la poppa che se ne andava lentamente, a motori bassi, verso la diga foranea. E’ stato il nostro 1900. Ha spopolato, svuotato terre e paesi molto più di due guerre mondiali.
Quelli di adesso, invece, partono sopra degli zatteroni, dei barconi a motore, verso un nord sommario, purché non sia un porto. E si portano dietro tutto quello che hanno potuto salvare da una espulsione, lasciandosi dietro un bucato in fiamme, oppure una miseria infame. Ma quegli occhi sbarcheranno da noi, e saranno rinchiusi, dentro Centri di Permanenza Temporanea. Chiamiamo così dei posti che sono dei campi di concentramento con sbarre, filo spinato, guardiani. Ma “permanenza”: un bel nome alberghiero, per non dire a noi stessi che facciamo i carcerieri di viaggiatori, colpevoli di viaggio.
“Che dà allo straniero pane e vestito”: questo dice di sé la divinità nella scrittura sacra. “Che dà allo straniero pane e vestito”. Che alla creatura umana dice: “E amerai lo straniero perché stranieri foste in terra d’Egitto”. Circa cento volte la Bibbia scrive la tutela dello straniero: circa cento volte. Insiste, la divinità, con il verbo “amare”, con il più forte sentimento e la più potente energia del corpo umano – “amare”: che fa del bene prima di tutto a chi ama, prima ancora di far del bene all’altro, allo straniero. Amare, non tollerare. Non respingere, alla rinfusa, donne incinte. E nessuno dica: «Ma perché partono incinte, queste benedette donne ragazze?». Perché non partono incinte. Vengono violate, regolarmente, a ogni frontiera africana.
Nasce tra i clandestini. Il suo primo grido è coperto dal rumore del giro delle eliche. Gli staccano il cordone. E, senza fare il nodo, lo affidano alle onde. I marinai li chiamano Gesù questi cuccioli nati sotto Erode e Pilato messi insieme. Niente, di queste vite, è una parabola. Nessun martello di falegname batterà le ore nell’infanzia e i chiodi nella carne. Nasce tra i clandestini, l’ultimo Gesù. Passa da un’acqua di placenta a quella del mare, senza terraferma, perché vivere ha già vissuto e dire ha detto, e non può togliere una spina dai rovi che incoronano le tempie. Sta con quelli che esistono il tempo di nascere, va con quelli che durano un’ora.
Siamo gli innumerevoli, raddoppia ogni casella di scacchiera. Lastrichiamo di corpi il vostro mare per camminarci sopra. Non potete contarci; se contati, aumentiamo, figli dell’orizzonte che ci rovescia a sacco. Nessuna polizia può farci prepotenza più di quanto già siamo stati offesi. Faremo i servi, i figli che non fate. Nostre vite saranno i vostri libri di avventura. Portiamo Omero e Dante, il cieco e il pellegrino – l’odore che perdeste, l’uguaglianza che avete sottomesso.
Da qualunque distanza, arriveremo. A milioni di passi. Noi siamo i piedi, e vi reggiamo il peso. Spaliamo neve, pettiniamo prati, battiamo tappeti, raccogliamo il pomodoro e l’insulto. Noi siamo i piedi e conosciamo il suolo passo a passo. Noi siamo il rosso e il nero della terra, un oltremare di sandali sfondati, il polline e la polvere nel vento di stasera. Uno di noi, a nome di tutti, ha detto: «Non vi sbarazzerete di me. Va bene, muoio; ma in tre giorni resuscito e ritorno».
Con profonda tristezza e dispiacere, condividiamo il lutto nazionale per la grande tragedia in cui hanno trovato la morte tanti fratelli innocenti.