Perché non bisogna perdere Fuocoammare
Questa sera, lunedì 3 ottobre, Rai 3 manda in onda in prima televisiva il film Fuocoammare di Gianfranco Rosi, già vincitore dell’Orso d’Oro di Berlino e scelto a candidare l’Italia agli Oscar.
Consiglio di non perderne la visione per due buone ragioni. La prima – a me per lo meno è capitato questo – è che ti aspetti di vedere solo la Lampedusa dei telegiornali. Attracco di barconi col loro carico di umane sofferenze, l’andirivieni dei soccorritori, gli immigrati aggrappati alle reti del centro di accoglienza. In qualche misura c’è anche questo (anche se il registro narrativo non centra con il servizio giornalistico), ma il racconto centrale è affidato a Samuele, un ragazzino che ama cacciare gli uccelli sui pini con la fionda e stare sulla scogliera a mimare fucilate. A fare da cornice la sua famiglia, la scuola, gli amici, la radio locale, l’escursionista subacqueo; insomma, il microcosmo quotidiano di quest’isola che dista 120 miglia dalla Sicilia e 70 dalle coste africane. Samuele non incontra mai gli immigrati.
A rappresentare la saldatura tra la straordinaria accoglienza degli isolani e quanti sono riusciti ad attraversare il Canale di Sicilia è il dottor Pietro Bartolo, che in 25 anni ha curato e assistito oltre 300 mila migranti. – E’ dovere di ogni uomo, se sei un uomo, dare una mano -, dice il dottor Bartolo.
L’altro motivo per non perdere questo documentario è la capacità del regista di mostrare i salvataggi in mare, il dolore, la morte, la preghiera e il canto di quanti si sono sopravvissuti, con totale pudore e rispetto, senza indulgere su dettagli estetizzanti. Rosi non è di quelli che calano sul dramma, fanno qualche ripresa ad effetto in quattro e quattr’otto.
No, lui a Lampedusa c’è stato un anno a girare con la macchina da presa. Con assoluta maestria, con l’intensità, la partecipazione e il rigore narrativo dovuto ad una tragedia che in vent’anni ha visto l’arrivo di 400.000 rifugiati e 15.000 persone scivolate nel fondo del Canale di Sicilia.