Chiamata alle armi in difesa della lingua italiana
La notizia è questa. 600 accademici, docenti, studiosi della lingua italiana, intellettuali di varie discipline, in una lettera destinata al Governo italiano, lanciano un doloroso grido di dolore per il pessimo stato in cui versa la lingua italiana, così come è parlata e scritta dai nostri studenti di ogni ordine e grado.
Colgono l’occasione per criticare la noncuranza dei governi su questa emergenza e indicano alcune regole stringenti e rigorose per rivalutare pienamente l’insegnamento dell’italiano. La richiesta mi ha un po’ spiazzato – ammetto la mia incompetenza – perché ritenevo che l’autonomia degli istituti scolastici e la libertà di insegnamento non avessero bisogno di norme legislative per sviluppare una efficace didattica.
Che uno Stato custodisca la propria lingua con la stessa cura (anzi, con qualche attenzione in più) che deve prestare alla tutela dei valori e cardini dell’identità nazionale è un obbligo costituzionale. Detto questo, però, mi permetto osservare come un tema di gigantesche proporzioni qual è la lingua di un popolo, è ben lontano dal trovare soddisfacenti soluzioni nei soli provvedimenti governativi, pure fossero i più appropriati.
Anzi, il dubbio nasce non tanto dalla possibilità di invertire il declino, quanto dal fatto che una difesa a spada tratta degli stilemi linguistici sia auspicabile. Mi spiego. La storia della lingua italiana è sovrapponibile alla storia di tutte le altre lingue del mondo: evolvono, si scompongono, si trasformano, si reinventano, seguendo il mutare delle vicende umane.
Per convincersene basta sfogliare un qualsiasi dizionario della lingua italiana e soffermarsi sull’etimologia dei lemmi: gli arabi, i longobardi, gli spagnoli, i francesi, ognuno di loro passando per la nostra penisola ci ha lasciato robuste testimonianze dei loro idiomi. Lasciti ricchi non solo dal punto di vista linguistico, ma rintracciabili nelle istituzioni, nelle pratiche sociali ed economiche, nel complesso delle culture.
Gramsci osservava – e con lui un numero consistente di studiosi – come la cesura di una tradizione linguistica avviene quando una società sta cambiando nel profondo. La rivoluzione mercantile, la comparsa della borghesia attraverso le corporazioni delle arti e dei mestieri, furono decisive per il passaggio dal latino alla lingua volgare, favorendone la sua impetuosa diffusione nell’uso comune, come nel linguaggio dei dotti.
Esempi ne possiamo fare altri. Nel nostro Paese vicende come il Risorgimento e l’Unità d’Italia, soprattutto con la conseguente introduzione della scolarizzazione di base, provocò un rinnovamento linguistico significativo. Uno scossone più forte lo possiamo trovare nel nuovo ordine mondiale scaturito nel II° Dopoguerra mondiale (cultura di massa, massicce migrazioni interne, libertà nell’informazione e in letteratura, diffusione della televisione, ecc.).
Ho preso una lunga rincorsa per arrivare con slancio a dire la mia sulla questione.
La lingua italiana sta cambiando perché siamo nel mezzo di un possente turbine che sta trasformando il mondo.
Gli errori di ortografia, la sintassi claudicante, l’indigenza lessicale dei nostri giovani studenti, sono solo gli epifenomeni di un sommovimento planetario dal quale è possibile nascano nuovi linguaggi, nuove lingue. La loro colpa (dei giovani) è solo quella di essere più ricettivi e disponibili alle cose nuove, a quello che di sotterraneo e non ancora pienamente percepito sta avvenendo. Non vorrei fare elenchi che appesantirebbero queste righe, però vorrei non si dimenticasse cosa sta accadendo.
L’accorciarsi dei meridiani e paralleli nell’era della globalizzazione, le migrazioni di interi popoli, la rivoluzione digitale, le sconfinate frontiere delle neuroscienze e della fisica, la mutazione degli ambienti in cui si agitano i viventi.
Dunque, il Governo deve fare la sua parte per tutelare la lingua italiana? Certamente. E i docenti e tutti gli operatori culturali? Certo. Inoltre, è ancora necessario che gli studenti e in genere i giovani sappiano scrivere e parlare bene la nostra lingua? La risposta è sempre sì.
In primis perché comunicare ed esprimere i nostri pensieri compiutamente dà qualche strumento in più per governare meglio la propria vita. Subito dopo per essere attrezzati a svolgere una creativa funzione maieutica nel tenere a battesimo una eventuale nuova lingua.
Facciamocene una ragione: se i processi strutturali premono affinché nuovi modelli comunicativi vengano alla luce nulla li potrà fermare. Anzi, è conveniente favorirli e nel contempo custodire le lingue tradizionali dei padri, come si dovrebbe fare con greco e latino.
Di conseguenza, non preoccupiamoci eccessivamente se i giovani smozzicano le parole, impastano lettere e segni grafici, parlano in slang frantumato in mille idiomi. Anche l’alba delle lingue scritte occidentali si presentò dapprima sotto forma di pittogrammi, poi con tagli sulle bullae, per arrivare allo zenith con l’alfabeto. La semantica dei testi crebbe con l’evoluzione simbolica dei segni: dalla semplice contabilità dei capi di bestiame e dei cereali, all’abbozzo di leggi e norme per il governo della comunità, dalla trascrizione di storie tramandate oralmente, alle sterminate biblioteche colme di testi eruditissimi.
Certo Dio poteva dare una svolta decisiva alla questione, evitando di creare uno scompiglio linguistico nei costruttori della torre di Babele, del quale ancora oggi scontiamo le conseguenze. Sarebbe stata l’occasione migliore per donarci una lingua comune, a tutti comprensibile, con grandi vantaggi nelle relazioni tra i popoli del vasto mondo. Tanto, nella sua onniscienza gli fu da subito chiaro (noi per capirlo abbiamo impiegato circa due millenni di calcoli e osservazioni) che, per quanto fosse stata alta, la torre non gli avrebbe mai solleticato la pianta dei piedi.