Apertura della caccia: memorie di un pentito
Chi ha avuto a che fare con gli uccelli sa che i pettirossi sono tutta piuma e non è di nessuna utilità cacciarli. Da ragazzi, tanto tempo fa, non la pensavamo così e li puntavamo con la fionda, o con le carabine ad aria compressa, facendo loro la posta nei pressi delle siepi di carpino bianco, di biancospino e di ribes.
Il pettirosso non è un bersaglio facile se si spara con un solo pallino. Si sposta dentro i tralci con voli brevissimi e nervosi, sospettoso ad ogni piccolo movimento. Gli spostamenti sono così rapidi che non ti lasciano prendere la mira agevolmente.
Dalla mia avevo una pazienza infinita nell’appostamento – in parte dovuta alle difficoltà motorie – e un flobert di medie dimensioni che avevo imparato a usare con grande perizia. Nell’oscurità del ballatoio di cascina Butto lumavo a dodici passi una piccola macchia rossa che instancabile ricamava la siepe, ora comparendo in contrasto davanti ad una foglia verde, ora scomparendo in un pertugio buio. Seguivo anche il caratteristico “tie” ripetuto e persistente e un “tsii” sottile, che guidavano la punta del mio mirino.
Da un quarto d’ora era cessata una pioggia che tagliava trasversale lo specchio di luce che intravedevo dal mio nascondiglio. Un rinforzo di tramontana tempestosa spingeva a piena velocità le bassissime nubi grigio scuro. Non riuscivo a capire se il pettirosso padroneggiava le folate timonando con la coda rialzata, o i suoi quindici grammi di piume erano in balia delle rabbiose raffiche che arruffavano la siepe. Poi il vento cadde improvviso, come se un occulto direttore con la bacchetta ferma a mezz’aria avesse zittito l’orchestra; uno stacco prima di una travolgente ripresa.
Le nubi, il biancospino, il pettirosso sul tralcio più alto, assunsero una fissità fotografica. Fui colto di sorpresa, ma lo stupore durò un attimo e considerai che era il momento propizio, perché da quella distanza e in quelle condizioni non avevo mai mancato un bersaglio. Con calma misi il mirino al centro della macchia rossa sul petto, trattenni il fiato, lentamente tirai il grilletto e chiusi gli occhi.
La canna soffiò il piombo con lo schiocco di una scudisciata; Pettirosso ruotò su se stesso goffamente e scivolò a terra sbattendo di ramo in ramo.
Non aveva ancora toccato il suolo che l’orchestra al segnale del direttore occulto attaccò un “Dies irae” maestoso e terribile. Le nubi fosche vorticarono a casaccio urtandosi e sprigionando saette e un rombo da far tremare i visceri. La siepe percossa rischiava di essere sradicata e l’assito del ballatoio, sotto il quale avevo trovato riparo, scricchiolava nello sforzo di schiodarsi dalle travi.
Mentre tutto turbinava, quel fagottino di piume venne sollevato con inaspettata delicatezza da un refolo secondario e fatto rotolare davanti alla pedana della mia carrozzina.
Pettirosso mi stava davanti rovesciato sul dorso con le ali aperte e fradice, crocifisso dal mio piombo. Mentre guardavo in tralice la macchia purpurea che si inumidiva e cangiava le piume bianche del ventre, scrutai disperatamente l’intorno per cercare qualcuno che mi aiutasse a capire cos’era successo, o per sentire una voce che mi confortasse sulla banalità dell’evento. Niente. Ero solo, infinitamente solo, ed avevo spento l’unico cuore che pulsava nel raggio di non so quante migliaia di chilometri.
Il vento cessò di spingere la pioggia. Raccolsi nel cavo della mano Pettirosso, lo posai sulla terra smossa ai piedi del biancospino, perché, pensai, ogni essere vivente deve tornare alle proprie radici, e mi avviai verso casa.
Andai subito in camera da letto dove abitualmente riponevo il fucile. Presi dal comodino I quarantanove racconti di Hemingway e lo infilai a casaccio nello scaffale di legno grezzo su cui tenevo in bell’ordine i miei libri. Accompagnai il gesto con una bestemmia a mezza voce arrochita: “Nick Adams, come ostia riuscivi a divertirti in questo modo?”
Infilai la carabina nella sua custodia appesa dietro la libreria e lì rimase ad arrugginire per anni, finché mia madre la diede ad Eppe, il rottamaio del paese.
Angelo Gandolfi
Non ho compreso appieno il commento di Emilio; ho molto apprezzato quello di Marina e, modestamente , invio il mio. Angelo ha mancato, nella sua vita, di esprimere le sue doti di narratore che emergono con prepotenza in questo breve ed autobiografico racconto. Sarebbe stato un eccellente autore di brevi racconti e quello che ho letto con un misto di coinvolgimento, di ammirazione per lo stile e di profonda pena per Pettirosso ne è la prova. Spero che la vena non dissecchi e ci proponga altre prove d’autore all’altezza della presente.
quando resto senza parole, sono solito mettere i tre punti, che non è che me li sia inventati io….. hanno un senso (3) ne più ne meno. in ogni caso come quasi sempre succede con gli scritti di Angelo, resto senza parole………o mi emoziono di conseguenza …
Molto bello Angelo questo tuo racconto che mi sembra di capire sia sutobiografico. Mi é piaciuto come lo hai scritto con sentimento e maestria ed anche la conseguente morale che se ne trae.
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