L’incredibile storia di Cita
Non c’è anno che nei Giorni della merla non abbia un pensiero, ogni volta di meraviglia, per Cita. Non ricordo con precisione come accadde che un giorno particolarmente rigido di gennaio zampettò dentro la cucina.
Non si fece intimorire dalla doppietta e dalla cartuccera appese in bella vista, né dalla mia presenza con le gambe infilate nel forno della stufa a legna per rianimarle dal gran freddo. Nessuno si mosse e con gli occhi seguivamo quel merlo (o merla? non s’è mai saputo) saltare sul tavolo e ripulirlo delle briciole del pranzo francescano.
Ci credete? Per tutto l’inverno condivise con noi quello spazio quattro per quattro, con disinvoltura e savoir-faire. Per me che non camminavo trasformò la cucina in una jungla esotica, un mistero silvestre venuto ad animare le mie fantasie. “La chiamiamo Cita, eh, mamma, la chiamiamo Cita?”. La sera, quando Ardelia e Gianmaria tornavano dal lavoro, si guardavo attorno e chiedevano: “ E Cita c’è ancora?”.
Cita, per rispetto, non volava. Con maestria si spostava ovunque con poderosi balzi e leggero battito d’ali. Dopo pochi giorni aveva imparato dove tenevamo il pane e il formaggio. Quando sentiva cigolare l’antina della madia si posizionava con discrezione per ricevere la sua razione. Non si lasciava avvicinare, manteneva la sua indole selvaggia e non si poteva tenerla sulla mano.
Seguivo le sue evoluzioni con grande apprensione, temevo potesse planare sul piano della stufa rovente e finire arrosto. Un’altra insidia poteva essere il tubo caldo che attraversava tutta la stanza per portare i fumi all’esterno. Cita non ebbe mai un’esitazione, uno smarrimento nel suo peregrinare, favorita anche dal fatto che non avevamo gatti di casa. I felini erano tutti randagi e famelici, ma Rez alla catena li teneva alla larga con furiose abbaiate.
E poi venne la primavera e successe l’inevitabile. Una mattina scendemmo in cucina e Cita era sparita, volata via. Mia madre mi consolò spiegandomi che aveva seguito la sua natura, la stagione dove si cercavano tra simili e noi umani a Cita non servivamo più.
Mi sono chiesto come sia potuta accadere una storia simile. Forse più di sessant’anni fa noi umani eravamo un po’ più “bestie” di quanto lo siamo ora, ci si intendeva meglio con gli animali, nonostante ora si abbia un sapere consapevole dell’unità tra i regni dei viventi.
Angelo Gandolfi
Angelo, mi hai commosso. Una storia meravigliosa e raccontata facendo trasparire tutto il calore e la tenerezza che hai provato durante quella esperienza. Hai ragione, una volta eravamo più ” bestie”. Kafka stesso affermò che avremmo potuto salvare la nostra umanità solo se fossimo riusciti a sdraiarci accanto agli animali e a rinunciare alla nostra posizione eretta, segno di superiorità. Grazie per questo tuo bellissimo racconto, Angelo. E grazie per avermelo inviato. Un bacio. E a presto.
Mia sorella Ardelia mi manda questo WhatsApp:
Grazie Angelo mi hai fatto rivivere i nostri affetti famigliari, mi sono accorta che mi scendevano le lacrime senza volerlo. Grazie ancora , buona serata a te e Carla un abbraccio.
Bellissima storia! Testimonianza di un antico momento forse perduto per sempre in cui si era più prossimi agli altri animali. E testimonianza della sensibilità di qualcuno che pur avendo qualche problema di mobilità vola sempre piuttosto alto…un caro abbraccio ad Angelo
“Cita, per rispetto, non volava…” la dice tutta sulla sensibilità di alcuni esseri viventi (purtroppo non tutti) e la sensibilità di chi scrive e riesce a cogliere bellezza e poesia anche dai saltelli di un merlo (o una merla…).