In viaggio con la guancia sopra i cuori
Non so voi. Io non ricordo quasi nulla dei primi anni di vita, solo scampoli sparsi e sfilacciati inservibili a comporre una narrazione compiuta. Solo una storia mi è rimasta miracolosamente incisa nitida nella memoria, e questo è il primo prodigio del quale sono stato testimone in quell’estate.
Avrò avuto sei, sette anni, la pace nel mondo non aveva ancora compiuto il decimo compleanno e le mie giornate scivolavano tra polvere e minòia. Stavo sempre a terra e gattonavo sull’impiantito di cemento in assoluta libertà, tirandomi dietro le gambe morte. Passavo dalla mia cucina al cortiletto, dalla cucina di Rosetta e Rita al corridoio, crocevia di quel microcosmo proletario qual era il Vaticano, un edificio di tre piani a pianta quadrata in un paese di cascine sghembe.
C’erano momenti di assoluto godimento come quando mi strusciavo alle gambe di Erminia dagli occhi bianchi, intenta al tavolinetto a incidere col bulino in braille i compiti delle vacanze. Lei abbassava le mani, a tentoni mi passava le dita tra i capelli e urlava: – Mamma, il Rez mi si è infilato tra le gambe! – Carolina usciva di corsa con la scopa alzata pronta a colpire, ma questa rimaneva a mezz’aria: – Tranquila, l’è l’Angelino che fa ‘l balòss -. Rez alla catena, sentendosi chiamato in causa, sporgeva il naso dalla cuccia e, capito che il richiamo non gli portava nulla da mettere sotto i denti, si rimetteva a dormire.
Vagabondavo per il Vaticano tutto il giorno e mi arrampicavo ovunque. Mi fermavo solo al tocco del mezzodì, spingevo la sedia vicino al tavolo e mi tiravo su per affondare il cucchiaio nel morbido caldo-fresco della minòia, quel piatto unico di polenta gialla e latte.
Ma in quell’estate (nessuno riesce più a ricordarmi se fosse il 1953 o ’54) ci fu un evento che non ho più scordato.
Mi sollevarono da terra, mi vestirono della festa e per un certo tempo non mi lasciarono più gattonare. Mamma, anche lei vestita a festa, mentre mi pettinava sussurrò: – Se và de Padre Pio, che magare al te fà caminà -. Io in braccio a mamma, Maria di Carlo, la vicina che portava le borse, dopo aver salutato papà, Ardelia e Gianmaria, si partì. A Calolziocorte salimmo su una corriera dove i sedili erano occupati da sole donne: pellegrine.
Per me fu un’esperienza entusiasmante salire per la prima volta su quel veicolo meraviglioso, che messo in moto esprimeva tutta la sua forza meccanica spingendo i passeggeri ad una velocità folle, inseguito da una nuvola di polvere e da un fumo nero dal sapore di nafta. Ricordo poco o nulla di quel viaggio da migrante in direzione contraria, ma su quella corriera soffiava la stessa speranza di quanti salivano al Nord: inseguire un miracolo. Solo da grandicello realizzai cosa dev’essere stato fare quasi 900 chilometri da Calolziocorte a San Giovanni Rotondo, su strade in parte sterrate, con un pullman residuato bellico.
Appena partiti mi misero in mano un cartoccio di caramelle che più le sgranocchiavo più quelle si riproducevano per incantamento. Gli scossoni mi impedivano di stare sul sedile perciò stavo tra le braccia di mamma, e quando le se indolenzivano altre braccia mi accoglievano a turno in grembo. Viaggiai sempre con la guancia sopra i cuori di quelle donne. Sono convinto che per molte di loro ero il corpo di una innocenza oltraggiata dal male, da lenire e cullare, da affidare proprio con le loro mani al possibile mistero del prodigio di Padre Pio, e del quale si sarebbero in parte sentite protagoniste.
L’autista spense il motore sullo sterrato antistante il convento dei cappuccini di San Giovanni Rotondo. La nube di polvere si adagiò lentamente a terra e l’aroma della nafta si dissolse in un’aria di solo cielo. In attesa del da farsi mi sedettero su un muricciolo col mio cartoccio di caramelle in mano.
Sono lì e mi si avvicina un ragazzino:
– Perché non hai le scarpe?
– Non cammino, rispondo.
– Mi dai una caramella?
Allungo il braccio, lui prende il cartoccio e in tutta tranquillità scompare nella gran confusione di gente. Mi ricordo bene che non urlai, non chiamai, mi scese una sola lacrima, una sola e un accenno di moccio che asciugai nella manica. Non passò molto tempo e tra le mani mi ritrovai un nuovo cartoccio di caramelle. Da quando eravamo scesi dalla corriera stavo aggrappato a chi mi portava in braccio e non perdevo mai d’occhio mia madre, avevo il terrore che mi lasciassero cadere e finire inghiottito in quel mare di persone in movimento, richiamate dal fascino del soprannaturale, dispensatore di benessere ultraterreno, non germinato dalla terra.
Mia madre con me in braccio cominciò ad avvicinare i frati che incontrava. Chiedeva e chiedeva, finché uno di loro le diede la risposta che cercava: – Se non deve confessarsi, all’ora della messa attenda vicino alla porta laterale della chiesa, Padre Pio entra da lì -. Molti anni dopo seppi che in quegli anni a Padre Pio, per ordine delle gerarchie, non era consentito celebrare la messa, ma vi partecipava e confessava.
Sul sagrato si attendeva l’ora della funzione. Tra i fedeli in attesa veniva a cadere ogni pudore e si trovava conforto a narrare il peso delle reciproche croci, tuttavia negli occhi di ognuno saettava la speranza della resurrezione che li aveva condotti in quel luogo.
Si avvicinò un signore che parlava in italiano, ma non da italiano vero. Questo il suo racconto, del quale avrei un ricordo sfumato se mamma nel corso degli anni non me l’avesse rievocato più volte.
– Ah, suo figlio ha la poliomielite? Conosco, una malattia terribile, tra i nostri soldati abbiamo avuto molti colpiti. Come dice? Sì, sono americano, pilota bombardiere durante la guerra. Forse oggi Padre Pio, uomo santo, dopo la confessione mi darà l’assoluzione, forse potrò tornare a vivere. Da quando la guerra è finita non ho più trovato pace, di notte non riesco a dormire, non trovo felicità di niente. Sono qui da molti giorni e mi sono confessato tre volte e ogni volta il Padre mi ha cacciato perché dice nascondo qualcosa. L’ultima volta mi ha detto “Guarda nel pozzo che sta nel chiostro del convento e ci vedrai quello che non hai ancora confessato”. Ieri ho guardato: visto, capito tutto. Ero su aereo che ha bombardato Milano nel ’44. Per errore, mi creda signora, per tragico errore, abbiamo colpito una scuola e tutti sono morti[1].
Il pilota teneva il capo abbassato, non riusciva a guardare mia madre. Nessuno parlò più, si udì solo la campanella annunciare l’inizio della messa.
La chiesa è stracolma di fedeli. L’aria appesantita dagli umori umani, dalla stordente fragranza del lilium, dagli sbuffi di incenso e di cera fusa, ovatta in un brusio indistinto lo sgranarsi del rosario. Mia madre siede su una seggiola appena all’ingresso laterale; io sono a cavalcioni sulle sue ginocchia. Tutti guardano da questa parte. La porticina si apre, una lama di luce taglia la prima fila, Padre Pio entra accompagnato da alcuni confratelli.
Due occhi, scandaglio di anime, si incrociano con gli occhi di ciascuno dei fedeli e semina inquietudine. Il frate che aveva parlato con mamma sussurra qualcosa a Padre Pio e ci indica. Si avvicina, mi guarda ora con dolcezza e mi pone la mano col mezzo guanto nero sul capo. Quelle stimmate vituperate, venerate, indagate, negate, mai svelate, delle quali mezzo mondo parla, sono sopra di me. Gli occhi del cappuccino incontrano quelli di mamma e con un filo di voce sentenzia: -Tornate a casa, camminerà in cielo.
Conosco quell’espressione di mamma: è di serenità. Si gira a guardare Maria di Carlo e alcune donne chi mi hanno tenuto in grembo. Basta quel viso a sciogliere la tensione, come se volesse dire: – Adesso possiamo dire, le abbiamo provate tutte.
Tornai a casa trionfante con uno strabordante cartoccio di caramelle per Ardelia e Gianmaria e la prima cosa che feci fu gattonare liberamente da una stanza all’altra del Vaticano.
Da adulto chiesi a mia madre se avesse provato delusione nel momento in cui il santo disse “camminerà in cielo”. Mi rivolse il mezzo sorriso di quella volta e confessò: – Ó pensà, l’è mia pόc.
EPILOGO
Alcuni anni fa sono tornato con Carla a San Giovanni Rotondo.
Tutto evaporato, nonostante la chiesa – cattedrale e la cripta d’oro. Padre Pio tolto dal cuore dei fedeli, restituito agli occhi dei visitatori in simulacro con un viso senza rughe, liscio in una quiete al silicone. Tutto evaporato, tutto evaporato…
Angelo Gandolfi
[1] Il 20 ottobre 1944, alle ore 11:29, i bombardieri del 451° Bomb Group alleato colpirono duramente il quartiere Gorla di Milano. Una bomba cadde sul vano scale della scuola elementare “Francesco Crispi”, proprio mentre bambini e personale scolastico stavano scendendo per raggiungere il rifugio sotterraneo dell’edificio; morirono 184 bambini, 14 insegnanti, la direttrice della scuola, 4 bidelli e un’assistente sanitaria.
davvero grazie Angelo . potente il contenuto e splendida la forma. l’unico problema consiste nel fatto che é così bello leggerti che puoi dare assuefazione , mi sa che dovrai scrivere di più …
Un racconto toccante di vita vissuta.Hai descritto il racconto con tanti particolari come sai fare sempre. Sullo allo schermo del computer leggevo con fatica le righe dello scritto ma era nitido il film del racconto. Angelo, con piacere ti ho conosciuto e potuto discorrere con te a casa tua. Io ora abito in quel forzatamente ristrutturato ” Vaticano” dove tu da naturalmente da bambino facevi a volte ‘il baloss’ come diceva tua madre. Ciao Luigi
Grazie Angelo per aver condiviso con noi un ricordo, forse il più importante e significativo della tua vita. Scritto come solo tu sai fare, rievoca un tempo in cui la fede, unica speranza intrisa di carità, era il perno su cui ruotava la vita delle persone umili e semplici… Grazie per la tua testimonianza.
Grazie Angelo per questo straordinario racconto che tocca la mente e il cuore.
Ciao Angelo, la tua storia del tuo viaggio che hai fatto da bambino mi ha commossa. Ho capito da dove proviene quella forza d’animo che si percepisce quando si sta vicino a te. Purtroppo la vita è una lotta continua bisogna sempre superare ogni asperità soprattutto quando proviene da personaggi che vorrebbero con cattiveria annullarti. Buone feste.da Giusi di Gino.
Uno straordinario ricordo d’ infanzia raccontato mescolando sapientemente ironia e drammaticità. È un piacere leggere i tuoi racconti, Angelo, perchè sai dare il giusto merito ad alcune delle tue esperienze e a trasmetterle a noi con la dovuta attenzione anche per i dettagli. Riesci a far vibrare i cuori. Grazie. Margherita.
Una storia vissuta, e raccontata con il cuore…. sa dare forza e coraggio per superare avversità che la vita dà senza guardare in faccia al bambino …..che deve vivere e crescere…ma gli fornisce molta forza per superare i limiti che incontra nel suo futuro….
Traspare il cuore della mamma e della famiglia in prima persona sempre vicini a colmare di affetto quel bimbo che cresce.
Come me, molte persone non conoscevano la storia di Angelo, che apprezziamo per molte cose, e per aver affrontato le difficoltà che la vita gli ha dato….
Angelo, prima di tutto grazie per aver condiviso il tuo cuore . Mi hai ricordato fra le tante emozioni che hai rimescolate nel mio, il libro che sto leggendo di Bussola, parlando dei suoi personaggi colpiti dalla vita lì descrive
capaci di cercare un senso ognuno in modo personale, autentico spudoratamente onesto di rispondere alla domanda: : “Che cosa fa di un uomo un uomo ?”
Onorata di essere amica tua e di Carla ,rita.
Ciao Angelo,
Un bellissimo ricordo di una esperienza toccante e di notevole empatia.
Un forte abbraccio. Sergio
GRANDISSIMA STORIA ,SCRITTA BENISSIMO COME SOLO ANGELO SA FARE, SOPRATUTTO UN FOTOGRAFIA ESATTA, DI QUEI TEMPI, E LE SPERANZE CHE ALBERGAVANO I CUORI, ANCHE SE NON ERANO ESAUDITE, TI DAVANO COMUNQUE LA FORZA DI ANDARE AVANTI, ANCHE CON UNA GRANDE FERITA NEL CUORE,
GRAZIE IMMENSE ANGELO
GERRY
Grazie Angelo di aver condiviso questa tua esperienza. Grazie anche della tua amicizia.
Auguri di Buona Pasqua a te, a Carla, a tutti i tuoi cari. Alfredo
Che bel ricordo ciao Angelo