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Un 4 novembre di pace

Due sono stati i momenti significativi che hanno segnato le cerimonie per il 95° anniversario della fine della Prima Guerra mondiale.

In una chiesa assai gremita, don Giuseppe, durante l’omelia e poi in piazza municipale ha richiamato con forza il valore fondamentale della pace a cui tutte le persone devono aderire e per la quale lavorare. Che ne è stato in Europa, ha sottolineato, del sacrificio di tante vittime se poi viviamo in modo ammuffito e chiusi in noi stessi, se poi neghiamo il principio cristiano e umano all’accoglienza di quanti scappano da violenze e guerre spietate, di quanti guardano a noi con la speranza di ricevere aiuto e solidarietà? L’esperienza religiosa e l’esperienza civile devono insieme affrontare le grandi questioni del nostro tempo e il nostro primo compito è tenere unita la comunità. Don Giuseppe ha concluso richiamando la protezione divina su quanti hanno responsabilità nel governo della cosa pubblica, affinché possano sempre operare con speranza per il rafforzamento della giustizia e della libertà.

La cerimonia è stata conclusa dal sindaco Gianni Cattaneo, che ha tenuto il discorso di seguito riportato.

Saluto con sincera gratitudine i cittadini, le associazioni, il parroco don Giuseppe, che hanno voluto essere presenti all’appuntamento del 4 Novembre, per ricordare insieme come nello stesso giorno del 1918 terminava la Grande Guerra.

 Una guerra terribile, che per la prima volta vide il coinvolgimento di numerosi popoli e nazioni, tanto da essere definita Prima Guerra mondiale.

La guerra non si combatteva solo al fronte.

Nello scenario di una Italia povera e contadina, chi rimaneva a casa conduceva una vita di stenti, ed era preda di malattie che mietevano vittime nell’età infantile. Alcune anziane di Monte Marenzo mi raccontavano che in quegli anni, in alcune cascine del nostro comune, cerano solo bambini, donne e vecchi, mentre gli uomini validi erano stati chiamati tutti al fronte.

Ogni anno ci ritroviamo in questa piazza, raccolti attorno al monumento deicaduti – care memorie della nostra comunità – per rendere testimonianza di fatti che accumunarono il destino tragico di milioni di individui, vittime della violenza della guerra, soprattutto giovani, a cui si chiese il sacrificio estremo: il sacrificio della vita.

Vedete, a 95 anni di distanza sono completamente dimenticate le ragioni del conflitto, i nemici di allora sono i nostri compagni di viaggio e condividono il comune destino dell’Europa.

Le maestose montagne contese a costo di inumane sofferenze sono oggi aperte a tutti, patrimonio dell’umanità, luoghi che per la loro bellezza favoriscono l’elevazione spirituale e umana di quanti le visitano.

La domanda è: perché dobbiamo aspettare il sacrificio di innumerevoli vite innocenti per renderci conto che solo la pace è il bene supremo degli uomini e delle nazioni, che solo la cooperazione e la solidarietà può suscitare la passione per l’esistenza, un’esistenza capace di guardare ad un futuro con più serenità e meno angosce?

Terminata la Seconda Guerra mondiale, praticamente dalla mia generazione in poi, qui da noi non abbiamo più avuto conflitti armati. Non è mai accaduto di beneficiare di quasi settant’anni di pace. Questo non deve farci abbassare la guardia e ritenere che non possa più capitare la guerra.

Abbiamo ancora sotto gli occhi il dramma della ex Jugoslavia, di un Paese che sta alla porta di casa nostra, nel centro dell’Europa, che ha conosciuto bombardamenti e stragi, persino campi di stermino. Non solo; la televisione ogni giorno, da anni, ci porta le immagini di intere popolazioni, di intere nazioni squassate da violenza inaudite.

E questo ci riguarda, anche molto da vicino. Teatri come il Libano, i Balcani e l’Afghanistan vedono la presenza dei nostri militari. Soprattutto in Afghanistan, l’intervento delle coalizioni straniere non ha pacificato l’area e ha dimostrato l’enorme difficoltà di portare la democrazia sulla canna del fucile. Come se non bastasse tutte le violenze e tutti i problemi per i quali si è deciso l’invio delle truppe sono rimasti intatti, e quelle genti continuano a soffrire come e più di prima.

Qual è la lezione: solo progetti e azioni di pace, di cooperazione e solidarietà sono in grado, alla lunga, di vincere le cause delle guerre.

Quasi un secolo è passato dalla Grande Guerra e la riflessione storica di quel periodo ci ha aiutato a capire che a scavare trincee, a stendere fili spinati, a spingere gli uni contro gli altri armati, furono e ancora oggi sono prevalentemente gli interessi colossali legati all’economia di guerra, l’espansione aggressiva dei mercati, il tentativo di controllare le risorse energetiche, l’acqua, le aree coltivate.

Passano i secoli ma le cause dei conflitti restano sempre le stesse: l’egemonia in campo economico e l’intolleranza contro il diverso (non importa se diverso per lingua, religione, colore della pelle).

Il senso di questa nostra commemorazione è dunque semplicemente questo: non smarrire la memoria di queste vicende, della nostra storia recente, soprattutto perché è ancora in grado di raccontare alla nostra mente e al nostro cuore, quanto sia importante mettere impegno e volontà per evitare i rischi di nuovi conflitti.

Non mi riferisco solamente ai conflitti armati, alle guerre tradizionali, ma anche ai tanti mali che affliggono le società contemporanee e la nostra cara Italia, e contro i quali dobbiamo lottare con la forza della ragione e il rigore dei nostri comportamenti.

Innanzitutto dobbiamo contrastare la dura e lunga crisi economica.

Una crisi che lascia senza occupazione milioni di persone, soprattutto senza una prospettiva di lavoro il 30% di giovani, che ogni giorno anche nel nostro territorio fa chiudere i cancelli di aziende e cantieri, nonché gli studi delle professioni. In tanti anni non ho mai visto tante persone venire in comune a chiedere aiuto: un lavoro, un sostegno alla famiglia, una fornitura alimentare.

Ma anche i comuni vengono lasciati soli dallo Stato e dai Governi, i quali dicono di fare leggi per lo sviluppo senza aggravarci di ulteriori tasse.

La verità è che lo sviluppo non si vede, agli enti locali si tagliano le risorse per i servizi essenziali e su di loro si trasferisce la responsabilità di aumentare le tasse. A Monte Marenzo, per fare un esempio, nel 2013 sono stati tolti circa 70.000 euro.

I comuni si trovano di fronte ad un drammatico bivio: tagliare l’assistenza ad anziani e disabili, il sostegno alla scuola, i servizi per i bambini e adolescenti, o aumentare le tariffe e le imposte locali?

Da parte nostra la scelta l’abbiamo fatta e ci siamo assunti la responsabilità di chiedere ai nostri cittadini un grande sforzo economico per mantenere dignitoso il livello dei servizi pubblici nella nostra comunità, abbiamo chiesto a tutti dei sacrifici, in particolare a quanti possono un po’ di più per sostenere la fatica di chi ha di meno.

La nostra decisione non è stata presa a cuor leggero, ma abbiamo una profonda convinzione: la prosperità di una comunità, al pari della prosperità di una nazione, è quella che affonda le radici in una cittadinanza sociale la quale non lascia sole le persone nei passaggi difficili della vita.

Ognuno di noi sa che le difficoltà economiche, la mancanza di lavoro, il peggioramento delle condizioni di vita, portano al degrado delle relazioni sociali e civili, allo spegnersi della speranza. Insomma è la democrazia stessa e la nostra libertà, conquistate con tanti sacrifici, che potrebbero correre dei pericoli.

Sono convinto che la comunità di Monte Marenzo, così come la nostra bella Italia, troveranno la forza per uscire da questo tunnel. Non dobbiamo fare altro che affidarci alle tante donne e ai tanti uomini di buona volontà, onesti e capaci di esprimere competenze, portatori di progetti innovativi e riformatori, animati da forte responsabilità e solidarietà nei confronti della realtà sociale e pubblica.

Credo proprio che questo sia il miglior modo per onorare i caduti che oggi ricordiamo, prestando ascolto al severo monito che viene dal loro sacrificio.

A nome dei cittadini e dell’Amministrazione comunale ringrazio sentitamente quanti hanno portato la loro testimonianza a questa cerimonia.

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